Ho amato e studiato il lavoro di Massimo Scolari. Ho letto quasi tutti i suoi scritti sul disegno e sull’insegnamento. Ho talvolta criticato chi sovrapponeva linearmente l’analisi all’autobiografia. Eppure non riesco a scrivere queste note senza ricordare il giorno in cui lo incontrai nella sua casa ad Asolo, nell’estate del 1991. Indossava una giacca particolare. Aveva una copiosa biblioteca di trattati antichi. Raccontava con passione di un corso tenuto in una università americana dell’Ivy League, dove aveva proposto un esercizio di scomposizione-composizione di una villa di Andrea Palladio. Descriveva con la precisione di un certosino i particolari costruttivi delle Ali, opera realizzata all’ingresso delle Corderie dell’Arsenale per la V Mostra Internazionale di Architettura. Mi donò il numero sette della sua rivista di Arti, Letteratura e Musica “Eidos”. Lì dimorava tutta la complessità di una figura poliedrica e sfaccettata, isolata e connessa alle vicende architettoniche internazionali. Lì la sua arte si mescolava alla sua vita. Dopo quello straordinario incontro… andai a comprarmi la giacca americana, quella bianca a righine azzurre!
Oggi leggendo e sfogliando il catalogo della mostra che si è tenuta al Museo Riva del Garda tra il 9 settembre e il 4 novembre 2007, ripenso alla sua figura di architetto e di intellettuale; una figura che è stata descritta definitivamente nei saggi di Daniele Del Giudice e di Carlo Bertelli, nei contributi di Peter Eisenman, di Kurt W. Foster, di Leon Krier e di altri architetti e storici illustri. Saggi e contributi che spiegano la sua arte e tentano di decriptare la moltitudine dei suoi mestieri (saggista, pittore, designer, editore). Una moltitudine che ha caratterizzato la vita dell’uomo-Scolari. Ma l’uomo, io credo, non può esser descritto in poche parole, perché egli fonde l’arte e l’autobiografia, il passato e il futuro, i criteri compositivi e gli oscuri processi dell’immaginazione… and so on, se vogliamo enfatizzare la sua attitudine di tenere insieme gli opposti e di rappresentarne poeticamente le contraddizioni (Non è questa, anche, la peculiarità dei suoi piccoli e bellissimi acquerelli?).
Così questa sua attitudine di mescolare arte e vita, forma e de-formazione, anima e gesto, realtà e finzione mi riporta in mente il lavoro di alcuni tra i migliori artisti-intellettuali del Novecento italiano, da Alberto Savinio a Carlo Mollino, da Gabetti & Isola a Italo Cremona solo per citare alcuni nomi che hanno avuto a che fare con il mio Piemonte, con il nostro Piemonte (l’autore girovago è infatti nato, durante la guerra, a Novi Ligure). Non solo. Questa rara e preziosa peculiarità mi fa dire – e so di farlo risentire - che oggi Scolari è l’“erede critico” (critico nel senso di privo di ogni forma di rispetto) di quello straordinario lavoro storico-architettonico-educativo messo in forma da Aldo Rossi: maestro unico e inimitabile della cultura italiana del Novecento, maestro necessariamente e drammaticamente senza discepoli diretti che riappare felicemente a dieci anni dalla sua scomparsa (1997). Riappare nelle pagine iniziali del catalogo, con la Presentazione della mostra alla Galleria Rinascita di Milano (1967), e in quelle finali, con una foto scattata il 16 giugno 1974, nel suo studio in via Rugabella a Milano, un anno dopo aver curato insieme a Daniele Vitale e a Massimo Scolari la Sezione Internazionale della XV Triennale di Milano.
Il bel catalogo, “classico” nell’impaginazione come nella scelta della carta, non rappresenta solo il lavoro pittorico di Scolari, un lavoro che coniuga tratti e parole, come nella migliore trattatistica italiana; non rappresenta solo il momento costruttivo, ossia il cantiere delle sue macchine “architetturali”, come nella migliore tradizione enciclopedica francese; ma esprime soprattutto la tensione verso la trasmissione del sapere. Ciò emerge in particolare nello scritto Attraverso l’architettura che l’autore scrive per la conferenza tenuta alla Yale School of Architecture il 7 settembre 2006. E qui è necessario soffermarsi un momento.
Non si vuole analizzare filologicamente il testo, non si hanno le capacità critiche, né si vuole imbastire un discorso sull’educazione dell’architetto. Si vuole soltanto sottolineare un aspetto che tocca un problema importante. Cosa significa, o meglio, cosa può significare oggi insegnare l’architettura?
Che la scuola italiana sia allo sfascio, è affermazione lapalissiana. Che la scuola di architettura sia provinciale, narcotizzata e lottizzata, è testimoniato dalla fuga dello stesso Scolari dalle liti accademiche della nostra amata italietta (grave perdita). Che la scuola sia un “pezzo” importante del nostro mestiere, è evidente dal lavoro di architetti e insegnanti come Libeskind, Eisenman, Moneo, Isola, Zucchi e Purini. Ma Massimo Scolari cerca di andare un po’ più in là, proponendo attraverso il testo alcune soluzioni, seppur temporanee e provvisorie. “In questo credo – scrive l’autore - sia la vocazione di una scuola di architettura: proporre dei problemi e mettere a disposizione degli strumenti critici per risolverli. Mai dare delle soluzioni”. Oppure, più avanti. “Insegnare la composizione architettonica non può quindi ridursi ad additare un modello stilistico, questo è degradante per lo studente. È lecito insegnare la grammatica e la sintassi, non la poesia”. E se l’autore è consapevole della “maledizione” dell’imitazione che colpisce i laboratori di progettazione, ricordo lo sferzante “dito nell’ano” pronunciato da John Hejduk a uno studente della Cooper Union che gli aveva proposto una soluzione progettuale alla “johnhejduk”, è invece problematico quando tratta il tema intricato e forse senza soluzione legato alla “periferia della poesia”. Qui introduce il problema dell’immaginazione, parola difficile, ma parola che non può non essere declinata in una scuola di architettura. L’eccellenza, sostiene, si può raggiungere solo quando si è “in grado di immaginare il progetto come un ologramma, di immaginare se stessi dentro il progetto, di vederlo crescere nella nostra mente ancor prima di aver tracciato una sola riga”.
Per Massimo Scolari, allora, parole come storia, critica, grammatica, intuizione e immaginazione devono appartenere al vocabolario dell’architetto e dell’insegnante, devono anticipare il gesto, devono ritornare a essere parole cariche di significati antichi, nuovi e rinnovati, devono accostarsi-saldarsi-sovrapporsi-giustapporsi… E aiutarci a ri-trovare e a tenere insieme oggi le parole bello e sublime.
Cesare Piva
“Aión. Rivista internazionale di architettura”, n. 15, settembre 2007, pp. 148-149. / ISSN- 1720-1721