Una bella mostra di disegni originali e modelli, di filmati d’autore e fotografie, di oggetti d’arte e parole, di mobili d’epoca e cantieri. Ecco le cose che hanno selezionato e concatenato Stanislaus von Moos e Arthur Rüegg: i curatori della mostra itinerante, organizzata dal RIBA Trust, Netherlands Architecture Institute e Vitra Design Museum, che è salpata da Rotterdam nella primavera del 2007 e approderà a Berlino nell’estate del 2009. Sembra normale. Eppure in un periodo di exhibitions asettiche e monolitiche, spettacolari e ridondanti di filmati, di slides senz’anima e corpo, di fredde scansioni digitali, la mostra al Barbican Centre concorre a ridare dignità all’architettura seria e alla storia utile. Cosa voglio dire? Provo a rispondere descrivendo alcuni frammenti estrapolati dal ricordo della visita che ho fatto insieme ad alcuni studenti.
Seria perché, percorrendo la mostra Le Corbusier. The Art of Architecture, ci si accorge che l’architettura è arte, gioco, visione, ma soprattutto “ricerca paziente”. Utile perché, leggendo le parole e decriptando gli accostamenti sorprendenti proposti dai curatori, la storia dell’architettura potrebbe ritornare a essere, (anche nelle asfittiche università italiane) analisi scientifica e insieme serbatoio fantastico di suggestioni critiche e progettuali. Seria perché, potendo osservare quasi simultaneamente la Floor plan with wall structures della Cappella di Notre Dame (1950-55), il Preliminary study, una grande fotografia di Villa Schwob (1916-17) e un modello scarno di Villas Jaoul (1951-55), il fruitore può apprendere tecniche costruttive ancora vive e memorizzare percorsi progettuale non lineari, discretamente eclettici, fecondi per allenare senza troppe spiegazioni l’immaginazione. Utile perché, potendo confrontare alle pagine 64 e 65 del catalogo, nel saggio Art, spectacle and permanence. A rear-mirror view of the Synthesis of the Arts, due disegni di Aldo Rossi della ciminiera del Cimitero di San Cataldo (1971-78) e uno schizzo di Le Corbusier del tronco di cono della Chiesa di Firminy (1963), il docente e lo studente sfiorano insieme le possibilità creative degli universi formali rubati al passato e plasmati dall’invenzione. Seria perché, analizzando lo Schizzo della base della colonna del Partendone verso il Pireo (1911) affiora la potenzialità archeologica e immaginifica del viaggio d’istruzione e dell’atto del disegno. Utile perché, leggendo il saggio di Jean-Louis Cohen, si scopre che tenere insieme Settecento e primo Novecento, Ledoux e Le Corbusier, A Philosophical Enquiry into the Origins of our Ideas of the Sublime and the Beautiful (1757) e “the first machine age” può essere un’operazione rischiosa ma necessaria per tentare di scandagliare e capire il più grande architetto, artista e intellettuale del Novecento, per provare a decodificare e comprendere le radici dell’architettura contemporanea. “Radici” che sono state raccontate in alcuni capitoli di un libro difficile e in parte oscuro (che ha avuto poca fortuna critica, ma denso di fonti primarie e di nodi storici ancora da dipanare) che ho usato liberamente per il “mio” John Soane. La problematica della frammentazione (2007). Ossia il libro di Roberto Gabetti e Carlo Olmo, Alle radici dell’architettura contemporanea (1987). Ricordo la presentazione a Torino, ventun’anni fa, quando Werner Oechslin sottolineava l’importanza del sottotitolo, Il cantiere e la parola.
Al Barbican artgallery, allora, con gli studenti soddisfatti di aver partecipato a quella serata particolare, sfiorando i disegni a matita e i modelli di legno, sentendo la musica e bevendo vino, ho intrecciato l’attualità straordinaria di Le Corbusier e alcuni frammenti di intuizioni di un architetto serio e di uno storico utile come Roberto Gabetti. Un architetto e uno storico che, iniziando Le Corbusier e l’”Esprit Nouveau” (1975), affermava: “In un’epoca come la nostra, che sta divorziando dall’amore per l’architettura, quale espressione limite della stessa costruzione umana, pare necessario premettere a uno studio che riguarda cinque anni della formazione di Le Corbusier – fra il 1920 e il 1925 – alcune motivazioni essenziali”. Cosa significa? “Nella prima fase del libro – scrive Oechslin – nel primo tentativo di riflettere, si intuisce in quale periodo siamo, quando viviamo. Intuiamo soprattutto i nostri limiti. Qui non è espressa l’arroganza dello storico che sa le cose, che sa tutto di tutto: è espressa l’incertezza di quello che dovrebbe sapere. Qui lo storico si avvicina cautamente agli oggetti di studio e di ricerca. Questo è l’atteggiamento analitico, o il metodo, che mi incuriosisce di più. Poi c’è il lavoro intellettuale dell’architetto Gabetti. Questi due aspetti non si possono separare. Vi è identità assoluta tra storico e architetto […] Ciò fa parte dell’ethos dell’architetto che è corresponsabile della cultura nella quale opera. L’architetto ha un dovere: egli deve entrare nel mondo delicato delle cose complesse”[1]. Questo è l’atteggiamento di ricerca che ho sentito abitando la mostra Le Corbusier. The Art of Architecture; una mostra di meraviglie e ricerche da vedere e re-immaginare; un catalogo da studiare con pazienza e utilizzare liberamente.
Cesare Piva
[1] Werner Oechslin, Per una storia scritta senza grandi lettere, in Paesaggi Piemontesi. Gabetti & Isola + Isolarchiteti + 9 architetture “minori”, a cura di C. Piva, Aión edizioni, Firenze 2008, p. 45.
“Aión. Rivista internazionale di architettura”, n. 19, 2008. ISSN 1720-1721