La Nuova Università Bocconi dei Grafton architects. Milano, 2001-2008
Prologo
“Inattesi e personali, tortuosi e autobiografici sono i percorsi che si frequentano per avvicinarsi a una città e alle sue architetture”. Così ho iniziato Incontri dublinesi[1]. Poi all’improvviso ricevo ventitre fotografie da Stefano Topuntoli, un fotografo che fissa il canone e rifiuta ogni forma di libertà interpretativa. Ricevo le immagini della Nuova Università Bocconi di Yvonne Farrell e Shelley McNamara, i Grafton architects, con Gerard Carty, Philippe O’Sullivan e Simona Castelli. È una bella architettura, perché solida e nel contempo frastagliata, che mette in forma rinnovate corrispondenze con la città di Milano, che è stata promossa da una committenza attenta al nostro lavoro, che oggi è al centro di un dibattito stimolante riguardante il futuro di una città che si sta preparando a essere il teatro dell’Esposizione Universale del 2015.
Prima coincidenza. Due città, un’opera teatrale, due architetti
Ricevo le fotografie sei giorni prima di partire per Dublino, dove con Nicoletta ci rifugiamo per incontrare i nostri amici e, in questa circostanza, per vedere Happy Days di Samuel Beckett: è in scena la commedia diretta e interpretata da una coppia femminile, Deborah Warner, regista, e Fiona Shaw, interprete del terribile-divertente monologo. La rappresentazione si svolge nell’Abbey Theatre, sede storica del repertorio nazionale, che giace a nord del fiume Liffey. Si tratta di un teatro che, dopo l’ampliamento di McCullough + Mulvin, con l’aggiunta di un corpo edilizio proteso nella città, esprime molto bene l’idea di “strada nel teatro” o di “teatro nella strada”. Questi architetti, nel 1991, avevano costituito il Group 91[2]; un gruppo eterogeneo, interessato al destino della città, che aveva ri-pensato e trasformato, dopo aver vinto il concorso, quello che oggi è il luogo urbano più caotico e più ricco di eventi culturali, ossia Temple Bar[3]. Nel gruppo c’erano anche gli architetti che diventeranno le “firme” più importanti, O’Donnell + Tuomey e i Grafton. E se ci fosse più spazio sarebbe interessante narrare le continuità e le differenze tra questi architetti che costruiscono e insegnano e affinano la propria identità architettonica. Mi accontento di 8.000 battute. Per ricordare che a Dublino ho visto il monumentale Edificio di pietra (Department of Finance, 2002-2006) che i Grafton hanno realizzato vicino al più famoso square della città e ho intervistato – dopo Beckett, un’altra coppia femminile – Yvonne Farrell e Shelley McNamara, nel loro studio scapigliato e “stracolmo” di cose, di modellini di cartone e di disegni preparatori. Della Nuova Bocconi, allora, non sapevo quasi niente; sono andato là con l’innocenza di un selvaggio; anche se tra il 1993 e il 1995 passavo da viale Bligny tutte le mattine, la Nuova Bocconi non l’avevo ancora toccata, né avevo letto nulla delle recensioni pubblicate sulle riviste specializzate. A Dublino ero curioso di conoscere il loro rapporto con la storia della città di Milano, in particolare con alcune architetture realizzate nei primi anni Cinquanta[4]; ero curioso di interrogarle sulle possibili disavventure con la burocrazia e con le faccende costruttive della nostra Penisola. Mi hanno risposto del loro interesse per una certa architettura milanese, dalla Cà Granda alle case di Luigi Moretti; dalla bellezza delle corti al rapporto singolare tra la facciata pubblica, spesso dura e silente, e la corte privata, spesso accogliente e ricca, che connota l’architettura della città; dalla nebbia della pianura padana alle cave del Ceppo di Gré, la pietra di rivestimento esterno del nuovo edificio; dai colloqui fecondi con il responsabile del progetto per il committente alla realizzazione, in studio con circa venti collaboratori, di ogni esecutivo e ogni particolare costruttivo e decorativo delle facciate continue di vetro; dal dispiacere di veder trasformate le libraries dei dipartimenti, progettate concatenando tante e diverse “scatole”, in uffici anonimi sistemati nel nuovo corpo edilizio parallelo a via Röentgen alla chiarezza costruttiva delle strutture verticali in cemento armato, setti, muri e travi-parete, posti a interasse costante di circa 24 metri. Le ho interrotte raramente: seppur discrete, amavano raccontare e raccontarsi, fare allusioni ad alcuni frammenti di Milano che avevano sfiorato o conosciuto lateralmente. Ma continuare così non servirebbe a niente. La descrizione asettica delle cose – come dei miei ricordi della nebbia e della durezza della vita milanese di Rocco e i suoi fratelli, del libro di Giuseppe de Finetti sulla storia e sulla costruzione della città, dove sono disegnate delle piazze che giacciono a livelli inferiori rispetto al piano urbano – rappresenta solo gli ingredienti per un risotto alla milanese. Ma il buon risotto è un’altra cosa: è fatto di esperienze e di tentativi, di visione delle cose, di abbagli e di fraintendimenti.
Seconda coincidenza. Un allievo, un maestro e la rottura della scatola edilizia
Ri-guardando la sequenza delle fotografie, sono ancora catturato dalle immagini dall’elicottero che Topuntoli utilizza per cogliere i segreti, le trame e il d-e-s-t-i-n-o della città. La prima fissa l’area prima dell’intervento di Ignazio Gardella. Un’area smagliata, un possibile “vuoto urbano”, che giace tra viale Bligny a nord e in alto a sinistra nella fotografia, via Röentgen a ovest, piazza Sraffa e via Toniolo a sud e via Bocconi a est. Un’area particolare, “fuori le mura” – vicina alla scarna Università Bocconi (1937-1941) di Giuseppe Pagano, ampliata tra il 1956 e il 1964 da Giovanni Muzio con la costruzione del Nuovo pensionato, dei Nuovi istituti, dell’Aula Magna e della Biblioteca – di cui si conosce quasi tutto dalla storiografia e dall’archeologia. Una zona prossima al sedime delle Mura spagnole e alla Porta Lodovica che, attraverso corso Italia – passando per il Complesso residenziale e commerciale (1950-1953) di Luigi Moretti, un’architettura monolitica e insieme ricca di tagli e di dis-torsioni che Aldo Rossi aveva definito espressione di una “visione di grandi fatti e di una nuova monumentalità urbana” – conduce al Duomo con il tetto di marmo di Candoglia.
La seconda fotografa il cantiere dell’Edificio per uffici dell’Università Bocconi di Gardella (1990-2000), il cui particolare costruttivo, redatto per l’ottenimento del permesso di costruire, è stato disegnato dallo scriba nel “luminosissimo” studio in via Marchiondi. Era il 1995 e Antonio Monestiroli stava intervistando l’architetto milanese[5]. Ma l’edificio di Gardella, a me pare, è un edificio discreto, progettato da un maestro che a Milano ha costruito due tra le più belle architetture realizzate in Italia nel dopoguerra, come la Casa al Parco (1947-1954) e la Casa in via Marchiondi (1949-1954) che hanno affrontato spregiudicatamente il tema del frattura verticale e della de-formazione della scatola muraria.
Adesso vorrei abbandonare le fotografie e alcuni edifici paradigmatici di Milano per concentrarmi sul Nuovo ampliamento dell’Università che, ricordo, è frutto di un concorso a inviti, bandito nel 2001, il cui programma era molto dettagliato, la cui giuria era presieduta da Kenneth Frampton, le cui tavole concorsuali dei Grafton, oggi appese ai muri del loro studio, esprimevano l’idea come il grande sforzo progettuale impiegato.
Descrizione di una sezione. Regole e deviazioni
È difficile (impossibile?) raccontare un edificio: è frutto di idee e di conoscenze – storiche e dei mestieri -, di negoziazioni politiche e sociali, di violenze e mediazioni, di scelte ponderate e intuizioni fortuite; è spesso un’immagine re-inventata tratteggiata dalle parole usate da chi tenta di decodificarlo. Per questo vorrei decriptarlo descrivendo un disegno in sezione dell’edificio, perché ritengo che questa architettura nasconda i suoi tesori nelle sezioni che evidenziano slittamenti e sottrazioni di piani, lievi smagliature dei setti murari, solidità e trasparenze, verticalità e luminosità. E, per aumentare l’ambiguità, leggerò una sezione che dovrà essere immaginata dal possibile lettore. Leggerò la sezione che taglia idealmente l’edificio, con una linea parallela a viale Bligny, che inizia dai condomini esistenti a sinistra, che “seziona” longitudinalmente l’Aula Magna, con il suo volume strapiombante e la sua volta ortofonica spezzettata, che attraversa il Foyer, posto a una quota inferiore rispetto alla quota urbana, circa sei metri, che si conclude a destra su via Röentgen.
Immaginiamo in alto, in sezione, una serie di rettangoli diversi, lunghi e stretti, appesi a una linea ideale continua, che definiscono gli uffici, che delineano una sorta di pettine smagliato. Un pettine costituito da parti sezionate, gli uffici, e da parti a vista, i cavedi-corti. Questi ultimi hanno larghezze variabili (in pianta si vedrebbe uno schema a un pettine sfrangiato, leggermente inclinato a viale Bligny, che a un certo punto si stira lievemente, definendo una specie di piazza all’incrocio delle due strade). Sembrerebbe la declinazione di uno schema, consolidato nella storia dell’architettura, che è stato “tematizzato” dalla Carta di Atene negli anni Trenta. Eppure qui, se si osserva uno schizzo preparatorio dei Grafton, assume una connotazione insolita. Qui lo schema cartesiano si spezza con l’inserimento dell’Aula Magna che s’insinua con radicalità, che genera interstizi, che moltiplica la diversità, che cristallizza il movimento, che lega e insieme separa (paradosso anglosassone reso architettonico da James Strirling) l’edificio alla e dalla città. In una parola lo “sgarro” dentro l’ordine formale; un qualcosa che caratterizza questa sezione dell’edificio e che nella cultura architettonica d’oltre Manica proviene ancora dalla memoria dello “scellerato” Piranesi, quello delle Carceri d’invenzione e del “frammentato” Louis Kahn; ma un qualcosa, anche, che allontana l’edificio dalla forma urbis di Milano, che è definita, almeno osservando la Pianta del Pinchetti (1801), da pezzi di ordine tentato (i cortili e i monumenti) dentro una grande “anomalia” (la ragnatela viaria). Una vicinanza a una certa idea di città, invece, sembra emergere osservando la pianta del piano terra, che si salda per frammenti, che, come il coagulo planimetrico della Banca d’Inghilterra di John Soane, deve essere decodificata analizzando i “grandiosi” luoghi connettivi, gli ingressi, gli androni, gli atri, i corridoi, i cavedi, le scale, ma soprattutto osservando la pianta delle coperture[6] che esprime il tentativo di dialogare con le corti milanesi e con la loro polivalenza dimensionale.
Epilogo
Come l’Happy Days di Beckett, allora – in-finito provocatore di domande, più che di risposte – non può esserci la parola fine a questo edificio che si è assemblato utilizzando e piegando drasticamente alcuni forme della realtà, ma senza cadere sul collage delle citazioni. Suggerisco al possibile lettore di osservare le immagini e di abitare l’edificio liberamente, girovagando per l’ampio foyer principale, salendo le scale “aeree” che conducono agli uffici nel corpo edilizio su via Röentgen, affacciandosi sullo spazio vuoto sopra al foyer del secondo interrato. Solo così potrà avvicinarsi alla comprensione di questa architettura compatta e insieme de-formata – certo, con qualche imprecisione costruttiva – che si integra senza titubanza nel paesaggio urbano. “Novitatem meam contemnunt. Ego illorum ignaviam”.
Cesare Piva
[1] Cfr. “Archi”, n. 4, agosto 2001, numero monografico, Architetti di Dublino, progetti nel paesaggio irlandese, a cura di Katia Accossato, Cesare Piva e, da Dublino, Suzanne MacDonald, Antonello Vagge, con saggio critico di Kenneth Frampton. La citazione è a pagina 14.
[2] Il gruppo di giovani architetti era composto da Rachel Childow, Shay Cleary, Yvonne Farrell, Paul Keogh, Niall McCullough, Micheal McGarry, Shelley McNamara, Valerie Mulvin, Siobhan Ni Eanaigh, Sheila O’Donnell, Shane O’Toole, John Tuomey e Derek Tynan.
[3] Cfr. Suzanne MacDonald e Antonello Vagge, Temple Bar: la riva sinistra di Dublino, in “Casabella”, n. 612, maggio 1994, pp. 28-39.
[4] Nel 2001 sono stato invitato da John Tuomey all’University College of Dublin a tenere la lezione: Italian Architcture of the Fifties. Genesis and Comprehension of three buildings, Casa Borsalino, Bottega d’Erasmo e la Casa del Sole, cfr. Cesare Piva, Paesaggi alpini e “libertà delle esperienza”: architetture al Breuil di Carlo Mollino, in “Aión”, n. 6, 2004, pp.112-119.
[5] Cfr. Antonio Monestiroli, L’architettura secondo Gardella, Laterza, Roma-Bari 1997.
[6] Sul tema della varietà delle corti, si veda il progetto di una scuola nella contea di Galway che i Grafton hanno completato nel 2003, Ardscoil Mhuire. Cfr. AA.VV, New Irish architecture 19. AAI Awards 2004, Gandon Editions, Cork 2004, pp. 22-37.
“Aión. Rivista internazionale di architettura”, n. 18, 2008, pp. 37-57. / ISSN 1720-1721