Tadao Ando, l’essenza delle poche cose

Note per tre architetture museali

Parafrasando Aki Kaurismäki, un’architettura deve essere diretta, concisa e di una bellezza impareggiabile, dal momento che tutti sanno che la Casa a Schiera a Sumiyoshi (1975-1976) dice più cose, oggi, sul significato dell’abitare, del paesaggio urbano, della società e della tecnica che le parole dello scriba o le immagini della ridondante e sradicata architettura contemporanea promossa da prestigiose riviste di settore. È tutto, o meglio, sarebbe tutto[1]. Perché quando si parla di architettura d’autore – e che autore – è molto probabile che egli detesti la “propria opera e non ne voglia più in alcun modo riparlarne, dal momento che un grande film (o architettura) invita il suo regista (o architetto) a misurare meglio la propria insignificanza e lo lasci nudo, accordandogli nel migliore dei casi solo pochi stracci per ripararsi dal freddo”[2]. Ma poiché ritengo che la critica architettonica debba ritornare a essere un arnese operativo e non soltanto un commento asettico alle suadenti rappresentazioni fotografiche, tenterò di leggere il Pulitzer Foundation for the Arts (1991-2001), il Modern Art Museum (1997-2002) e il Chichu Art Museum (1999-2004) per quello che sono e soprattutto per quello che mostrano ai miei occhi e alla mia mente le immagini, i disegni, le relazioni di progetto e alcuni testi che hanno toccato nel corso del tempo queste tre architetture museali, due costruite negli Stati Uniti d’America, una in Giappone. E, siccome non ho visitato queste costruzioni di Tadao Ando, né ho dimestichezza con il carattere immanentistico della cultura del Sol Levante, gravissima pecca per un critico che si avvicina all’architetto giapponese, chiedo perdono al lettore e all’autore, affermando che si tratta di un tentativo di decifrazione parziale e che, eventualmente, aggiusterò il tiro dopo aver vissuto direttamente sulla mia pelle – e nel mio animo – l’esperienza di una visita.

Architetture (non solo) laconiche

All’inizio ho utilizzato l’aggettivo conciso per connotare la bellezza di un’architettura. Si tratta certamente di un’affermazione perentoria, forse di una semplificazione. Eppure se diamo uno sguardo al portfolio di Ando e ai musei qui pubblicati scopriamo che una costante del suo lavoro riguarda una certa semplicità del risultato finale. Una semplicità che sfiora il mondo delle forme, sempre sintetico; i criteri compositivi, quasi sempre logici e razionali; l’uso della tecnica, mai fine a sé stessa; il controllo della luce, sempre sublime e rigoroso; il dialogo con il contesto e con la tradizione, mai lineare, né pedante. Se una certa critica lo ha definito “un combattente”[3], si può dire che l’ex pugile giapponese sferra più diretti che ganci, si muove con la leggerezza e l’intelligenza di Muhammad Ali, comunica in maniera scabra e ironica le sue idee e la sua arte come il pluri-campione del mondo dei pesi massimi. E, per evitare di essere frainteso, adesso vorrei soffermarmi un momento.

La parola semplicità, si sa, è ambigua: è ambigua perché l’ho sovrapposta alle parole laconico e conciso; perché la nostra lingua si è impoverita; perché è spesso sinonimo di banale; perché si contrappone, almeno in architettura, a parole quali complessità, polivalenza, de-costruzione, smembramento, scompaginazione, parole che inondano i commenti scritti di molte architetture e che sembrano le uniche parole pertinenti per descrivere oggi i fenomeni architettonici. Ma, allora, tentare di decriptare le fratture della scatola muraria che connotano la Fondazione Pulitzer a St. Louis, la forza del segno della copertura che tiene insieme la varietà formale del Museo di Arte Moderna a Fort Worth e la moltitudine di figure geometriche che tagliano la crosta terrestre del Chichu Art Museum rappresentano solo tentativi di lettura anacronistici su alcune architetture che una certa storiografia considera troppo semplici per la nostra società così aggrovigliata? Oppure devono essere interpretati come tentativi appassionati non su ma per un’architettura complessa che si costruisce con la variazione di “poche e profonde cose”, per ricordare, a dieci anni dalla scomparsa, Aldo Rossi (1931-1997)? Non voglio rispondere linearmente a questa domanda. Vorrei invece utilizzare qualche parola di Ando per continuare queste mie note. “Per proporsi in modo semplice nello spazio – scrive l’architetto -  occorre beninteso usare elementi semplici, cioè pochi mezzi. Ma ciò non vuol dire che l’architettura in questione sia semplice, tutt’altro. Quello che desidero è di ottenere una struttura complessa, che trovi però una sorta di semplicità attraverso la purezza, la nobiltà, lo spazio. Spero di riuscirci. Lei conosce quei poemetti giapponesi che si chiamano haiku? Un haiku è composto di 5, 7 e 5 sillabe che formano la ricchezza poetica. È questo stesso spirito che cerco di valorizzare nella mia architettura: è nella semplicità che dobbiamo cercare la profondità, la pienezza”[4].

Se lasciamo lo spazio letterario ed entriamo in quello architettonico, dall’osservazione della pianta della Fondazione Pulitzer affiora la semplicità della composizione. Si vedono due parallelepipedi, larghi uguali e leggermente diversi nella loro lunghezza come nella loro altezza, che definiscono uno schema a C. Il volume più alto contiene una galleria espositiva, mentre quello più basso contiene la hall d’ingresso, la biblioteca, gli uffici e gli spazi di ricerca. La discreta complessità, che avrebbe dovuto prendere corpo mediante l’uso di pochi pezzi, qui sembra cercata non solo dall’uso di alcune regole geometriche che fissano le dimensioni degli spazi, dal controllo sapiente della luce zenitale, ma soprattutto dallo slittamento e dalla sottrazione di alcuni setti murari, che forse alludono ad alcune case di Luis Barragan, come Casa per Folke Egerstrom (1966-1968); slittamenti, rotture e sottrazioni che sicuramente concorrono a definire corrispondenze tra esterno e interno, tra luce diurna e luce artificiale, tra spazio architettonico e ambiente naturale, tra fissità dell’architettura e delle opere d’arte e mutevolezza del tempo e delle stagioni. Ma in questa architettura, almeno così mi pare, forse per i conflitti con gli artisti Richard Serra e Ellsworth Kelly, che hanno partecipato alla progettazione, l’essenzialità dell’impianto non sembra raggiungere la “ricchezza poetica” auspicata dall’architetto.

Le parole di Ando, insieme al concetto di semplicità, esprimono qualcos’altro. Esprimono il concetto di appartenenza e nel contempo di lontananza alla e dalla tradizione culturale giapponese.

Un’anima (non solo) giapponese

Che ancora oggi vi sia una tradizione o una specificità locale è un’affermazione lapalissiana nonostante i sostenitori della globalizzazione e della bigness. Che la tradizione giapponese del costruire abbia piegato felicemente le forme di alcune architetture occidentali del Novecento è ormai storia fissata dalla storiografia e rappresentata, per esempio, dalla tomba monumentale Brion a San Vito d’Altivole di Carlo Scarpa, solo per citare un architetto che ha cercato di comprendere lo shintoismo giapponese. Che Tadao Ando sia il più giapponese degli architetti giapponesi contemporanei è sottolineato dalla critica[5] e da Kenneth Frampton nella sua Tettonica e architettura. Poetica della forma architettonica nel XIX e XX secolo (Milano, 1999) come nei Thoughts on Tadao Ando (1995). Eppure se proviamo a decifrare il Modern Art Museum a Fort Worth si trova qualcos’altro. Si trova una parziale risposta alla domanda a mio avviso decisiva: “A quale tradizione dobbiamo guardare?”. Lì infatti si trovano temi che hanno una valenza universale e – se ancora oggi e possibile usare questa parola – temi aderenti al mondo “classico” come il tema della cella circondata da un recinto di colonne, ossia il tema del tempio greco, o come il tema albertiano della varietà figurativa. Si trova, in altre parole, il paradosso Ando. Ossia l’universalità di un’architettura immaginata e costruita da un architetto, colto e intellettuale[6], che ha sempre abitato orgogliosamente a Osaka, che ha sempre continuato a parlare solo giapponese, la sua lingua, nonostante il suo Grand Tour del 1965, nonostante i molteplici riconoscimenti e le molteplici esperienze costruttive internazionali, nonostante l’appartenenza a un’epoca di omologazione linguistica, formale e costruttiva, nonostante l’amore per le case di Le Corbusier che ha preso corpo nel libro, bello e utile per l’educazione di un architetto, Le Corbusier Houses (Giappone, 2001). E pensando al suo essere nel mondo pur essendo cresciuto e vissuto in un quartiere di Osaka, prima di affrontare il suo museo americano, mi vengono ancora in mente le parole dell’architetto lombardo, apprezzato universalmente, che si considerava cittadino del mondo quando apriva il cancello della sua casa al Lago Maggiore. Oppure mi viene in mente la vita dell’autore di Viaggio a Tokyo (1953), Yasujirō Ozu, che non aveva mai lasciato il suo paese, che viveva con la madre, che affondava il suo cinema nella cultura, nella tradizione e nella società giapponese e simultaneamente era aperto a temi che avevano una portata globale, come il rapporto tra città e campagna, tra boom economico e povertà, o come la famiglia e il modo di rapportarsi con l’effimero che ci circonda. Non solo. Il cinema di Ozu è stato definito come caratterizzato da una forte asciuttezza formale, trovata dall’autore mediante la sottrazione di elementi del linguaggio cinematografico, mediante l’uso del primo piano e dei campi vuoti, mediante l’assenza dei movimenti e la presenza della stasi[7]. Ma di recente, alcuni critici hanno individuato[8], insieme alla nettezza delle inquadrature, un “gusto barocco” giocato sulla proliferazione degli elementi ed enfatizzato dalla posizione bassa della macchina da presa e dal chiaroscuro dell’immagine. Questo gusto barocco, definito dalla molteplicità delle figure, dall’effetto sorpresa e da un discreto movimento formale, è rappresentato anche nel Modern Art Museum di Tadao Ando. In particolare, ciò sembra evidente osservando simultaneamente le piante e le sezioni trasversali e longitudinali dell’edificio. Qui convivono, generando contrappunti armonici, spazi chiusi e trasparenze, figure rettangolari e figure ellittiche spezzettate, celle quasi buie di calcestruzzo a vista gettato in opera ed engawa (verande) quasi illuminate a giorno di ferro e vetro, solidità e leggerezza, allusioni alla tradizione giapponese del costruire e dialoghi con l’architettura laconica di Louis Kahn. Ma tutta questa diversità, tutta questa moltiplicazione di figure, in altre parole, tutto questo dis-ordine apparente, o meglio tutta questa oscillazione tra opposti, è tenuta insieme dalla lama del tetto e dallo specchio d’acqua, segni perentori di land-architecture, e dalla ripetizione ossessiva del sistema costruttivo (setti murari e pilastri a Y) che conferiscono, soprattutto al prospetto ovest, un aspetto particolare, che riporta la mia mente al ricordo di una possibile dilatazione della sequenza metopa-triglifo che apparteneva alla trabeazione del tempio dorico. Una delle caratteristiche più sorprendenti di questa architettura, allora, è la sua capacità di assorbire la moltitudine di cose e di appropriarsene: è per questa considerazione che la veranda giapponese come il caldo rigore dei film di Ozu hanno un ruolo evidente nella sua architettura al pari della cultura internazionale, che corre dalla sezione trasversale del Kimbell Art Museum al frammento del tempio antico… and so on. Qui i riferimenti alla realtà sono così introiettati che diventano quasi invisibili.

Spazi, tagli e transizioni, “ricchezza poetica”

Il gusto barocco accennato in precedenza diventa sublime al Chicu Art Museum, costruito a Naoshima, un’isola giapponese del Mare Interno, già teatro del Museo di arte contemporanea (1988-1995). Si tratta di una delle più grandi e belle architetture dell’architetto, perché affronta la questione della frammentazione liberandosi dei fardelli della propria autobiografia architettonica e delle sirene de-costruttive della contemporaneità. Qui Ando immagina una cittadella ipogea di forme semplici che si concatenano tra loro attraverso passaggi all’aperto, gallerie e fessure nel terreno. Le concatenazioni sotterranee avvengono senza utilizzare criteri compositivi convenzionali, quali gli assi direttori o le giaciture cartesiane, ma mediante rotazioni, compenetrazioni e saldature. L’ordine discreto, espresso dal bel disegno preliminare, è conferito dalla nettezza dei volumi, dall’uso di un unico materiale, il calcestruzzo armato “faccia a vista”, e dal dialogo costante con l’azzurro del cielo, visibile dai tagli geometrici del lembo terreste, che risulta così quasi incontaminato. L’azzurro del cielo è un frammento importante della combinazione progettuale, il solo elemento naturale, insieme alla luce, visibile oltre le opere di Claude Monet, di Walter de Maria e di James Turrell.

Le opere degli artisti sono collocate in spazi autonomi e specifici, pensati e immaginati come un tutt’uno. Qui l’arte si fonde all’architettura[9]. Le intenzioni dell’artista si mescolano a quelle dell’architetto. Il visitatore partecipa all’opera complessiva attraverso la percezione dell’opera d’arte e lo spostamento nel paesaggio artificiale. Si sposta da dentro a fuori, da spazi geometrici a corti con pareti strapiombanti, da muri lisci a tagli di luce obliqui. Qui, in questi luoghi della transizione, tra uno spazio espositivo e l’altro – come avviene nelle immagini fisse, silenti ed eloquenti, perché altamente emozionali e “soggettivate”, che anticipano un cut del montaggio di Viaggio a Tokyo di Ozu – il visitatore è ancora carico di emozioni provocate dalla visione delle opere d’arte e insieme intriso di emozioni nuove scaturite dalla passeggiata architettonica. In questi luoghi Tadao Ando prolunga i sentimenti vissuti dall’artista, dal visitatore e da sé stesso… Ha immaginato e creato lo “spazio indicibile”!

“I registi più seri si occupano di ben pochi temi. I professionisti, come si dice, sono invece un caso a parte: sono capaci di fare un film impersonale su qualunque soggetto”. (Kaurismäki)

Cesare Piva


[1] In realtà suggerirei di leggere direttamente le parole dell’architetto sul significato di casa Azuma, cfr., Tadao Ando, From perifhery of Architecture, in “JA-The Japan architect”, n. 1, 1991, pp.12-20.
[2] Aki Kaurismäki, Baudelaire, scritti febbrili (1980), in Peter von Bagh, Aki Kaurismäki. Dialogo sul cinema, la vita, la vodka, Isbn edizioni, Milano 2007, p. 218.
[3] Cfr. Masao Furuyama, Tadao Ando. La geometria dello spazio, Taschen, Köln 2007.
[4] Tadao Ando, Resistere il caos. Un colloquio con Tadao Ando, in “Casabella” n. 555, marzo 1989, p. 30.
[5] Cfr. Vittorio Magnano Lampugnani, Due recenti architetture giapponesi, in “Domus”, n. 712, 1990, pp. 25-37.
[6] Cfr. Francesco Dal Co, Tadao Ando. Le opere, gli scritti, la critica, Electa, Milano 1994; Tadao Ando Light and Water, introduzione di K. Frampton, The Monacelli Press, New York 2003.
[7] Cfr. Paul Schrader, Il trascendente nel cinema. Ozu, Bresson, Dreyer (1972), Donzelli editore, Roma 2002.
[8] Dario Tomasi, Ozu Yasujirō. Viaggio a Tokyo, Lindau, Torino 2002, pp. 53-59.
[9] Ho trattato questo tema nel testo Stanze e frammenti. La casa museo di John Soane a Lincoln’s Inn Fields, in “Aión”, n. 14, 2007, pp. 129-141.

“Aión. Rivista internazionale di architettura”, n. 15, settembre 2007, pp. 47-79. / ISSN 1720-1721

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